mercoledì 22 luglio 2009

Pop!

E in effetti con la noia di Harry Potter me la sono cavata troppo alla svelta, ma la misura del post è tiranna, richiede un argomento alla volta. Visti i feedback, credo il discorso si possa un po' allargare dal caso specifico (sul quale tutto sommato ha ragione Antiorario: trattasi di Häagen-Dazs) al fatto generale, che mi sembra la questione del pop. O almeno io la chiamo così.

Mi scrive infatti una lettrice: "Forse, semplicemente, ciò che mi fa preferire le verdure dell'orto dell'amica Bernardetta a quelle del supermercato è questo: genuinità, freschezza, nessun passamano, raccolta al momento della giusta maturazione, acqua di pozzo, nessun pesticida, niente gas di scarico addosso e così via. [...] Bisogna farsi una ragione, credo, di aver messo insieme una finezza di palato che fa apprezzare le verdure dell'orto: insomma, voglio dire che è un cavarsela a buon mercato parlare semplicemente di noia, mentre si è in grado di coglierne perfettamente le ragioni ma si preferisce sorvolarle per non correre il rischio di sentirsi superiori."

Ora, difficilmente si troverebbe qualcuno che ha meno pudore di me a dichiarare la superiorità dei suoi personali gusti su quelli del volgo, ma la questione per quanto mi riguarda ha una dimensione in più: il fatto è che naturalmente noi adoriamo le verdure bio/local/homegrown/organic, ma cosa mangiamo davvero? Certo le insalate miste, certo la tartare di tonno col wasabi, certo la salsiccia ricavata dal maiale del cugino, ma anche molte altre cose, alcune ben poco raccomandabili, e alcune buonissime nonostante siano "sbagliatissime"(o forse proprio perché lo sono). Tipo le patatine di McDonald's. Tipo la pizza al taglio untissima. Tipo la torta del supermercato (che sì, magari non è proprio buonissima, ma quel sapore un po' artificiale è particolare, ce l'ha solo lei, alla fine dopo un po' mi manca...). O, per l'appunto, tipo il gelato Häagen-Dazs.

Forse sono le nostre nuove, debosciate generazioni, ma il gusto del godimento procurato in modo semplice, poco problematico, magari con qualche prodotto di sintesi chimica, progettato in laboratorio e corredato di un packaging attraente e multicolore è un gusto che non possiamo negare di possedere. Al limite. è un gusto di cui andiamo fieri, in particolari situazioni e occasioni. Non parlo del finto intellettualismo del trash, del camp, delle commedie di Pierino: quelle non ci piacciono davvero di per sè, ci piace l'uso che ne possiamo fare all'interno delle nostre pratiche interpretative. Parlo del gusto per il pop.

Bach è meraviglioso, irraggiungibile, perfetto.
E Natalie Imbruglia? Non scherziamo. E però
vogliamo fare finta che in macchina e a casa abbiamo solo l'integrale del clavicembalo ben temperato? Che le uniche cose significative che la musica ha da dire all'essere umano si trovano negli spartiti della musica classica? Che non ci siamo mai innamorati di una canzone (mai? un milione di volte!)?

La finezza del palato resta: non tutto ci piace e siamo in grado di riconoscere la cosa "vera" e "genuinamente" migliore, di distinguere Thelonious Monk da Giovanni Allevi. Io personalmente sono di sicuro pronto a sostenere che il primo è meglio del secondo e che questo mio gusto è "superiore". Ma questo perché alle mie orecchie Giovanni Allevi è di nuovo un McFlurry: qualcosa di francamente indifendibile, se non come umana debolezza. E le canzonette di Paolo Conte? E quelle di De André e De Gregori? E quelle di Tiziano Ferro? Eccetera eccetera?

martedì 21 luglio 2009

Harry Potter e la maledizione del McFlurry

C'è un sacco di gente al mondo che considera il McFlurry un gelato. Si tratta della preparazione di McDonald's definita "a vanilla ice cream dessert". Non so se lo avete mai assaggiato: se sì, sapete già che abisso lo separi dal gelato (quello vero, buono e artigianale); se no, dovete fidarvi della mia parola. Il McFlurry, voglio dire, non è questione di buono o cattivo, semplicemente non è gelato: è una emulsione di latte e zucchero (e non voglio sapere cos'altro), dolce e vanigliosa.

C'è un sacco di gente al mondo che considera la saga di Harry Potter un bel ciclo di letteratura fantastica (c'è un sacco di gente che lo considera molto ma molto di più, ma è inutile scomodare i fan). Ecco, per me Harry Potter sta alla letteratura (anche di intrattenimento, anche fantastica, anche per bambini, cioè alla letteratura nel senso più ampio e meno snob possibile), come il McFlurry sta al gelato. Non è questione di buona o cattiva letteratura, è che semplicemente Harry Potter non è una saga fantastica: è una emulsione di storie, stereotipi e mitologie pop, dolcificata, edulcorata, raffazzonata e (a partire da quando è diventato un successo planetario) scritta con un manuale di marketing come guida.

Questo non significa che i lettori di Harry Potter sono tutti scemi, così come i consumatori di McFlurry non sono tutti degli imbecilli. Non vuol dire che Harry Potter è poco raccomandabile solo perché non rientra nei criteri bigotti di parrucconi intellettualoidi e snob, così come il McFlurry non è poco raccomandabile solo perché non gli assegnano la stella Michelin. Non significa che chi legge Harry Potter è una specie di cerebroleso che non capisce l'alta letteratura, così come chi mangia un McFlurry ogni tanto non è un uomo di Neanderthal incapace di sperimentare le delizie della gastronomia langarola. Non significa che Harry Potter non possa essere avvincente, sorprendente, capace di creare immedesimazione e divertimento, così come il McFlurry non è del tutto privo di dolcezza, cremosità, capacità di farti sentire glicemicamente esilarato.

Quello che voglio dire è che nessuno mi convincerà mai che il McFlurry è un buon gelato. Non perché ce l'ho con McDonald's per ragioni ideologiche, o perché mi vergognerei di ammettere gusti tanto plebei: solamente perché il mio palato non è capace di ignorare le enormi differenze di gusto e felicità che dividono l'esperienza-McFlurry dall'esperienza-gelato. Allo stesso modo, se dopo aver letto, anche con un certo divertimento e di sicuro con grande facilità e scorrevolezza, sei libri di Harry Potter su sette, tuttavia non riesco a trovare da nessuna parte la forza di leggere anche il settimo e ultimo, non è per intellettualismo, ma per noia. Pura e semplice.


venerdì 17 luglio 2009

In ritiro

Sto leggendo una stampata, molti fogli. Ogni volta che finisco una pagina, la appoggio a faccia in giù, a sinistra della pila di fogli ancora da leggere. Man mano si forma la pila dei fogli già letti, e sta arrivando a toccare l'angolo di un libro, che sporge da sopra una piccola torre di altri libri. Foglio dopo foglio, lo spazio verticale è sempre meno e sono ormai cinque o sei pagine che penso non ce ne staranno più, che non riuscirò a infilare anche questa sopra alle altre e sotto l'angolo del libro.

Sto leggendo il racconto di un ritiro di meditazione Vipassana. Il protagonista cerca di venire a capo dei mille contrasti (fisici, psicologici, intellettuali) che l'esperienza gli provoca. Uno dei punti, naturalmente, è il distacco dal sé, dalle decisioni-lamentele-intenzioni-illusioni di controllo. E naturalmente uno dei punti è: se lasci perdere e non ti preoccupi, poi le cose chi le fa? Cosa ti impedisce di morire di fame insieme ai tuoi figli in un fosso di scolo di un slum di Calcutta?

Finisco il foglio, lo appoggio sugli altri a faccia in giù. Una parte di me si chiede come ho fatto a continuare a far salire la pila per tutto questo tempo sotto all'angolo del libro. Avrei detto di aver raggiunto il massimo possibile almeno dieci pagine fa. Ero arrivato (ma sono passati almeno cinque minuti) alla fine dello spazio. Evidentemente mi sbagliavo, non era il massimo.

Ma la pila non è più sotto l'angolo del libro; è stata spostata di qualche centimetro a destra; e anche la pila dei fogli ancora da leggere è stata spostata di qualche centimetro a destra; e questo nonostante avrei giurato che non ci fosse spazio per fare questi spostamenti sulla mia incasinatissima scrivania (il che, oltre alla mia pigrizia, spiegava perché continuavo a guardare salire la pila sotto al libro senza risolvere il problema). Chissà da quanto tempo, senza accorgermene, impilo i fogli già letti senza doverli più far stare sotto all'angolo di quel libro.

Posso tornare tranquillamente a finire il racconto sul ritiro di meditazione Vipassana.

lunedì 13 luglio 2009

E naturalmente anche Grillo è un povero stronzo

Non che non sia ridicolo, per carità. Non che non abbia sparato a zero sul PD da sempre e continui a farlo, per carità. Non che l'idea che possa guidare la maggiore forza politica di opposizione non ci faccia vacillare, per carità. E nemmeno che i partiti di massa siano taxi, da prendere o lasciare quando fa comodo, oppure che non ci siano gravi problemi di regolamento, oppure che la cosa non sia terribilmente "poco seria", per carità.

E sono tutti lì a fissare il dito (Grillo), mentre la luna (il fatto che l'elettore medio del PD li considera altrettanto ridicoli di Grillo, tutti quanti, e molto più compromessi con le schifezze del potere) galleggia beata ed enorme nel cielo estivo.

Se era una povera stronza la Serracchiani, figuriamoci Grillo: e il punto non è che non lo siano, al limite il punto è che magari lo sono proprio. E, pur essendolo, appaiono a tanta gente, anche nel PD, comunque paragonabili, se non addirittura preferibili, ai Bersani-Franceschini-Marino-Bindi-Rutelli-D'Alema ecc ecc.

Anche Sofri dice che purtroppo ormai nessuno considera importante "la serietà" dei candidati:
dal momento che non c'è più, e da tempo, quella intima serietà responsabile che sola, altro che gli Statuti, trattiene dal trattare il partito cui tanti affidano le proprie speranze come il bar della stazione di notte.
Ma se, invece di essere in atto un mutamento antropologico del popolo della sinistra, che sta diventando incapace di apprezzare la serietà e la preparazione politica, il punto non sia che, molto semplicemente, la serietà e la credibilità l'ha perduta tutta la classe dirigente del PD, che il suo popolo non gliela accorda più, e che quindi Grillo tutto sommato finisce per sembrare il più serio di tutti?

Se non altro per il rasoio di Occam: non c'è bisogno che qualche milioni di italiani siano diventati delle specie di berlusconizzati di sinistra, capaci solo di ridere alle barzellette e apprezzare le ragazze giovani, basta che qualche decina di notabili di partito abbiano talmente perso la faccia da risultare più ridicoli di un comico. E talmente non se ne rendono conto, che l'unica cosa che sanno dire di uno da cui temono di farsi scippare il partito (e come hanno fatto ad arrivare a questo punto non se lo chiedono mica): ma non è mica uno serio!

martedì 7 luglio 2009

You can't judge the book from the incipit (or can you?)

Tutti gli incipit felici si assomigliano fra loro, ogni incipit infelice è infelice a suo modo.
Cioè: un grande libro spesso ha un grande incipit - ed elencare i grandi incipit dei grandi libri mi sembra un esercizio un po' stantio (naturalmente, ho una personale top five, ma è mooolto stantia); invece, alcuni grandi libri hanno incipit scipiti, insulsi, insignificanti, infelici.
Quale sarà l'opera con la divaricazione più grande tra bellezza dell'incipit e bellezza globale? Chi resterebbe nello scaffale eternamente se si dovesse decidere la lettura solo in base alla prima pagine, alle prime righe, alla prima frase?
Non ci ho pensato granché, ma la prima proposta che mi viene è Guerra e Pace:

«Eh bien, mon prince, Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, proprietà de la famille Buonaparte. Non, je vous préviens, que si vous ne me dites pas que nous avons la guerre, si vous vous permettez encore de pallier toutes les infamies, toutes les atrocités de cet Antichrist (ma parole, j'y crois), je ne vous connais plus, vous n'êtes plus mon ami, vous n'êtes plus il mio fedelissimo servitore, comme vous dites. Ma benvenuto, benvenuto. Je vois que je vous fais peur, sedetevi e raccontate.»
Così diceva nel luglio del 1805 la ben nota Anna Pavlovna Šerer, damigella d'onore e amica personale dell'imperatrice Mar'ja Feodorovna, accogliendo il grave e altolocato principe Vasilij, che era arrivato per primo al suo ricevimento. Da molti giorni Anna Pavlovna tossiva; aveva la grippe, come diceva lei, (grippe era allora una parola nuova, usata soltanto da pochi).

Non so, a me non sembra proprio felicissimo - e se consideriamo il resto del libro (o altri incipit di Tolstoj), beh, insomma, dai.

Comunque, pensiamoci.

lunedì 6 luglio 2009

Invito permanente a tutto il mondo

«The beliefs which we have most warrant for, have no safeguard to rest on, but a standing invitation to the whole world to prove them unfounded.»

«Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo di dimostrarle infondate.»


John Stuart Mill, On liberty, 1859


venerdì 3 luglio 2009

Se sei un giudice costituzionale

Se sei un giudice costituzionale
non soltanto per te non vale
la legge che al normale magistrato
impedisce, destino ingrato,
di fare dell'imputato
un lieto commensale,

ma hai anche totale la licenza
dal buon gusto, dall'intelligenza,
dall'essere di esempio per chiunque:
non stupisce, dunque,
che tu inviti a cena Sua Emittenza,
Angelino Alfano e Gianni Letta.

E nessuno mai che si permetta
di dire che parlavate di decreti,
sentenze, leggi e impunità,
invece che di donne o di reti di Kakà,
e chi lo dice è peggio che anormale,
mentre tu sei un giudice costituzionale.

io non ho il permesso

Io non ho il permesso di soggiorno. E non ne ho bisogno!
Sono nato legale, pulito, incensurato - e bianco (ma bianco di quelli giusti).
Io non ho bisogno di permessi, perché sono uscito da una vagina legale e non da una criminale (in realtà, da un taglio in una pancia legale, e non da una criminale).

Io vado bene, sono normale, sono italiano, io, non un delinquente (cioè, anche se fossi francese o inglese non sarei un delinquente, ma non stiamo a sottilizzare - poi magari un giorno, chissà, anche francesi e inglesi... voi vi fidate di francesi e inglesi?).

E naturalmente mi vergogno profondamente e mi fa tutto schifo e vorrei fare qualcosa. Mi è venuta in mente una piccola idea. Prima la lancio così, poi mi informo e magari, chissà... Intanto l'idea è questa: qualcuno sa se si può richiedere il permesso di soggiorno anche da cittadini italiani?

Cioè: è chiaro che non si può OTTENERE il permesso di soggiorno, ma presentare domanda non dovrebbe essere tecnicamente possibile? Non potremmo presentare qualche MILIONE di domande e chiarire che ci fa schifo essere legali e giusti e normali per diritto di nascita e non per come ci comportiamo?

p.s. lettura consigliata, il solito perfetto Sofri (colgo l'occasione per inaugurare una tradizione di questo blog: tutte le volte che cito Sofri, ricorderò la mia personale opinione che lui sa chi ha ammazzato Calabresi e non lo dice)



giovedì 2 luglio 2009

La politica alla macchinetta del caffè --- ovvero: ma Debora Serracchiani è una povera stronza?

Con una breve, spigliata intervista a Repubblica Debora Serracchiani, una che parla da deputata europea, non da candidata segretaria, non da candidata premier, solo da outsider molto popolare, ha fatto un gran casino. Tutti scandalizzati, tutti orripilati, tutti a trattarla da povera stronza, ragazzina che non sa quello che dice, qualunquista, superficiale, stupidina (per esempio, Cappellini sul Riformista).

Secondo me la questione non riguarda la Serracchiani in quanto tale, ma il modo di fare politica oggi per la sinistra (e il PD): si può fare politica parlando di simpatia di un candidato, criticando un linguaggio troppo difficile, indicando spudoratamente il nemico, affibbiando la qualifica di «vecchio» agli altri e di «nuovo» a se stessi?

Una prima risposta tendenziosa: certo che si può, Berlusconi lo fa da quindici anni. Ora, i toni, e soprattutto gli interessi privati che la retorica politica berlusconiana ricopre non sono paragonabili a quelli della Serracchiani (e infatti fino a cinque minuti fa lei era una specie di Santa Giovanna D’Arco, era quella-che-aveva-battuto-Darth-Vader-Silvio-Berlusconi). Ma la semplificazione della visione politica che sottende a risposte come «ho scelto di stare dalla parte di Franceschini perché è il più simpatico» non è tanto lontana da quella che è sempre stata indicata, con un misto molto rivelatore di ammirazione per la sfrontatezza e di disgusto elitario, come la grande forza comunicativa di Berlusconi: parlare alla gente in termini super-comprensibili, rifacendosi a categorie extra-politiche, puntando su un’emotività quasi infantile.

E infatti la reazione dei vari Pollastrini, Zingaretti, Errani, Bindi ecc ecc è una specie di rivolta dei benpensanti (ancora prima che dei benpoliticanti) a qualcuno che si permette di trascinare a un livello ridicolo la discussione politica – e di nuovo, tralasciamo di analizzare la questione di quali interessi e manovre reali siano all’opera al di sotto delle dichiarazioni pubbliche. «Anche Totò e Tina Pica erano simpatici, sarebbero stati un ticket straordinario», «sapete perché preferisco Bersani? Perché sa cantare...», «I suoi argomenti mi sono sembrati un po' banali, scontati e certamente non quelli di cui c'è bisogno in questo momento».

Nell’intervista di Maltese (e anche qui ci sarebbe da analizzare l’impatto del genere giornalistico specifico sul tono e il taglio del discorso), Serracchiani si è permessa di fare una cosa che nessuno ha mai visto né sentito fare a nessun politico di sinistra: parlare di politica come si fa normalmente tra colleghi alla macchinetta del caffè, tra amici in pizzeria, tra genitori al parco mentre i bambini giocano. In un certo senso, Veltroni aveva inaugurato questa modalità comunicativa intima, sdrammatizzante, leggera: solo che lui parlava così di figurine Panini, musicisti jazz e film d’autore, mica delle candidature interne, delle divergenze politiche, delle prospettive elettorali.

Mi sembra che il punto allora sia: si può a sinistra fare politica alla macchinetta del caffè, parlando come parlano gli elettori e non i quadri del partito, oppure no?

Non si tratta di una domanda semplice, e la risposta non è affatto banale. Molta parte del popolo della sinistra, e forse anche del popolo del PD, pensa che la politica sia una cosa seria, che i leader dovrebbero essere molto competenti, molto intelligenti, molto migliori della francamente sconsolante mediocrità (anche morale) che sembra invece imperante nella parte avversa. Molta parte di noi preferisce di gran lunga, nella propria vita e forse anche nell’urna, chi usa le posate nel modo giusto, chi ascolta, legge, guarda cose intelligenti, chi si esprime con proprietà e attenzione, chi non banalizza ma vola alto, chi non riduce a una brutale semplicità l'irriducibile complessità delle sfumature.

Ma siamo sicuri che poi, alla macchinetta del caffè, non abbiamo mai detto: «Come si fa a menarla ancora con “piattaforma programmatica”?!», «Questo Franceschini è proprio simpatico» (oppure, «per niente simpatico»), «Basta, finché c’è lì D’Alema non se ne uscirà mai fuori» eccetera eccetera eccetera? Siamo sicuri che sia un modo di parlare di politica da poveri stronzi, che giustamente non devono essere presi in considerazione da chi, ben più preparato e bravo, ha in mano i destini della nazione? Siamo sicuri che anche a sinistra la cosa migliore è non disturbare il manovratore?