venerdì 16 ottobre 2009

La democrazia vera

"Serve una riforma - dice Berlusconi - che faccia del nostro Paese una democrazia vera non soggetta al potere di un ordine che non ha legittimazione elettorale".

Qui non c'è equivoco, né interpretazione sfumata possibile: la democrazia che ha in mente Berlusconi è la dittatura del popolo (esercitata nel suo nome dal governo). Che la democrazia moderna si fondi sull'equilibrio di poteri diversi (di origine, formazione e legittimazione diversa) che devono controllarsi e agire in autonomia, non è ignorato da Berlusconi: è negato.

Una democrazia vera in senso berlusconiano non prevede che l'esecutivo sia soggetto ad altri poteri, tutto il potere essendo del popolo che lo attribuisce tutto in una volta a un solo soggetto, attraverso le elezioni (anche se, tecnicamente, è il Parlamento che ha legittimazione elettorale, non il governo - un particolare noioso su cui si preferisce sempre sorvolare, un difetto della Costituzione che risulta veniale, dato che, grazie a Dio, i deputati e i senatori della maggioranza sono oggi saldamente controllati dal capo del governo).

Il premier del mio paese asserisce pubblicamente di voler modificare la costituzione del mio paese per instaurare un regime (nel senso tecnico di assetto politico-istituzionale) che lui definisce "democratico vero" e che io (ma direi anche Montesquieu) trovo totalitario (sempre in senso tecnico, visto che il potere politico assorbe tutti gli altri, e da tutti gli altri non può essere messo in discussione).

Giusto per ricordare insieme alcune cose basilari, mi vengono in mente un certo numero di poteri (non sottoposti a consultazioni elettorali) che in una democrazia moderna controllano, influenzano, in determinate occasioni si impongono sull'esecutivo (il quale a sua volta fa lo stesso nei loro confronti, naturalmente): la magistratura e il parlamento, ovviamente, ma anche l'opinione pubblica nelle sue espressioni associative non politiche, la libera stampa e televisione, le organizzazioni e gli enti sovra-nazionali (in primis, nel caso italiano, l'Unione Europea) e il diritto internazionale, almeno nelle sue basi indiscusse (tipo, per dire, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo).

E giusto per ricordare insieme un altra cosa basilare, Hitler è stato eletto in un paio di libere elezioni prima che instaurasse il regime nazista (arrivando al 33% dei voti nel '32). E Mussolini? Siamo sicuri che, venendo da dove veniamo, sia il caso di irridere chi si preoccupa del regime che ha in mente Berlusconi con l'argomento che il premier è stato eletto democraticamente?

(L'immagine è la scheda elettorale del 1933 per il distretto di Hesse-Darmstadt. Per vederla bene - soprattutto la prima riga - potete cliccare qui)

martedì 29 settembre 2009

Pierluigi Battista e il peso della stupidità

Dice che non si dovrebbe discutere con un cretino (la gente potrebbe non notare la differenza). Ma a volte la tentazione è irresistibile: il pezzo di Pierluigi Battista sul Corriere di ieri è un'esplosione di intelligenza di tale geometrica potenza, che non ho potuto fare a meno di condividerla con qualcuno.

Come tutti sanno, i grandi geni della letteratura mondiale sono sempre stati ingiustamente vessati e incredibilmente negletti da legioni di funzionari (grigi e oscuri) delle case editrici, ciechi di fronte alla luce sfolgorante dell'Arte e stupidamente dediti alla censura di ogni originalità. Questo, appunto, lo sanno tutti e sono passati decenni da quando Eco scrisse una famosa serie di parodie di rifiuti editoriali raccolte nel Diario minimo - vale a dire che la cosa è così ovvia e stantia che la sua stessa parodia (anzi, meta-parodia) è datata e risaputa. Ma a Pierluigi Battista sembra tutto molto fresco e interessante:
Si consiglia vivamente la lettura del «Gran rifiuto» di Mario Baudino per chi si ostina a decrittare le vicende umane come il frutto di disegni oscuri e trame inconfessabili, sottovalutando il peso dell' insipienza, della superficialità, della pura e semplice stupidità nella linea di condotta di chi deve scegliere seccamente tra un «sì» o un «no».
Ora, tutti, ma proprio tutti quelli che scrivono e non vengono pubblicati (e, nonostante le 500.000 novità all'anno in Italia, il loro numero è legione) hanno una teoria sulle ragioni di tale ingiustificabile ingiustizia.

La teoria principe, più comune, è quella cospirativa, secondo cui la casa editrice, pur non potendo negare l'assoluta rilevanza culturale e artistica dell'opera proposta, è impossibilitata a dare seguito in modo appropriato al riconoscimento del genio a causa di un complotto oscuro e terribile (poteri forti, mafie culturali, sodalizi giudaico-massonici ecc ecc).

La seconda, grande teoria, appena meno comune, è appunto quella sposata da Battista: è inutile cercare tanto lontano, il fatto è che gli editoriali sono scemi.
Nella galleria degli stupefacenti errori editoriali stilata da Baudino non colpiscono tanto le censure politiche (la «Fattoria degli animali» di Orwell) o dettate dal bigottismo moralista (dalla Lady Chatterley di Lawrence al «Lamento di Portnoy» di Philip Roth), ma quelle ispirate alla pura cecità, così imperiosa e autolesionista da cancellare persino la percezione dei propri interessi.
Segue lungo elenco di esempi di ciechi, insipienti, superficiali e puri e semplici stupidi che si sono permessi di rifiutare cose che Battista (lui sì intelligente, colto e capace di distinguere il valore letterario) avrebbe invece, naturalmente, accolto a braccia aperte:
Mandando indietro l' «Ulisse» di Joyce per la Hogarth Press, Virginia Woolf si disse «irritata da questo liceale a disagio che si gratta i foruncoli». [...] Italo Calvino, ha raccontato Cesare Cases, liquidò così «La milleduesima notte» di Joseph Roth per Einaudi: «non è roba per noi». [...] E quando Garzanti visionò il manoscritto de «L' insostenibile leggerezza dell' essere» di Milan Kundera, il verdetto fu tagliente come una mannaia: «Non voglio dei minori, e per giunta cecoslovacchi».
Mi sembra che i casi siano due:

1. Calvino, Garzanti e Woolf sono dei cretini, i libri buoni si distinguono dai libri meno buoni come un porcino da un ovolo malefico, Pierluigi Battista dovrebbe fare il direttore editoriale di Rcs, invece che il giornalista al Corriere.

2. Calvino, Garzanti e Woolf sono l'esempio lampante del fatto che scegliere i libri per una casa editrice è un affare molto diverso da scegliere il porcino più grosso da friggere. I libri buoni sono evidenti ex-post, molto meno ex-ante - se non fosse così ci sarebbe una sola casa editrice al mondo che fa tutti e solo i bei libri. E Pierluigi Battista sta benissimo dove sta, a fare il lavoro che fa.

Anzi forse starebbe meglio nel bosco a raccogliere funghi porcini invece di ovoli malefici - posto che ne sia capace.

lunedì 31 agosto 2009

Se ti metti le dita nel naso non credi in Dio - post filosoficoagostano

Ho pensato per un po', durante le vacanze, a un modo leggero, a misura di blog, di discutere qualcosa che mi ha molto provocato e che trovo molto importante. Non è che mi sia venuto in mente granché.

Il 14 agosto su Repubblica , Vito Mancuso ha tentato una discussione logica e non confessionale delle ragioni per cui senza Dio non esiste etica. Il nocciolo del ragionamento è:
Definisco nichilismo la negazione di un fondamento razionale ed eterno della natura e della storia, dalla quale consegue la negazione di un punto fermo a cui il singolo debba sottomettere il suo agire e prima ancora il suo pensare.
("fondamento razionale ed eterno della natura e della storia" è una parafrasi per Dio, evidentemente, e "nichilismo" diventa così sinonimo di "etica a-teistica")

Io sono totalmente in disaccordo con questa impostazione,
ma non argomenterò su questo, il post è già abbastanza pesante. Seguiamo invece l'argomentazione di Mancuso:
Si può dare un umanesimo senza trascendenza che riconosca un valore più grande del singolo, un primato dell' etica in base al quale il singolo superi se stesso e la sua volontà di potenza (che spesso si declina in modo casereccio sotto forma di adulteri, menzogne, furberie, narcisismi di varia sorta)?
Con l'occhio alle pagine dei quotidiani, che sciorinano crimini, nefandezze e orrori assortiti, la risposta non può, secondo Mancuso, che essere negativa:
Sono i nostri stessi giorni a rivelare che un umanesimo ateo si rivela alla lunga teoreticamente impossibile.
E se qualcuno dei miei venticinque (magari!) lettori ha avuto un soprassalto, pensando magari al suo nonno mangiapreti e di rettissima condotta, eccolo servito:
Attenzione, non sto sostenendo che non vi siano atei dal comportamento eticamente cristallino; so bene che ce ne sono, io stesso ne conosco non pochi. Sto sostenendo piuttosto che persone così manifestano con la loro assolutezza etica un livello dell' essere che non è conforme con la loro negazione di un' assolutezza a livello ontologico.
Facciamo un piccolo passo insieme in avanti, partendo da queste premesse: gli uomini sono incapaci di limitare la loro volontà di potenza da soli e hanno necessità (addirittura teoretica) di un "fondamento razionale ed eterno della natura e della storia" per poterlo fare.

Diciamo che io credo che la storia e la natura hanno un fondamento razionale ed eterno. Ho un po' di vertigine a immedesimarmi in uno stato mentale del genere, ma facciamo che è così. Dunque, so che Dio esiste, e con esso un ordine e un senso non solo per la mia vita personale, ma per l'esistenza di ogni singolo atomo dell'universo, ogni oggetto, animale, pianta, asteroide. Cosa me ne faccio di una consapevolezza così abbacinante? Come è evidente, me ne servo per contrastare il mio desiderio di trombare la moglie del vicino (con i risultati che ognuno può immaginare, se
dobbiamo giudicare dai successi conseguiti in questo e ben altri campi da milioni di uomini e donne provviste di fede e etica cattolica). A cosa serve Dio? A impedirmi di mettermi le dita nel naso!

Ma c'è anche un'altra faccia, meno ridicola, di questo modo di mettere le cose: se è ridicolo scoprire che Dio serve come possente, eterna, onnipotente diga al rivoletto torrentizio della volontà di potenza individuale, come definire la psicologia di qualcuno che pensa che l'unico argine alle sue voglie e pulsioni sia Dio?

Cosa direste a un amico se vi confessasse che se ne frega di quello che gli hanno insegnato genitori, parenti, amici, libri, maestri, che se ne frega delle leggi dello stato e della dichiarazione dei diritti dell'uomo, che se ne frega dell'umana compassione, dell'empatia con i sofferenti, della capacità di immaginare le conseguenze delle proprie azioni, che se ne frega perché tutto questo non è neanche lontanamente sufficiente a frenare i suoi istinti, perché l'unico punto fermo che potrebbe giustificare a livello teoretico una modificazione del suo comportamento è solo ed esclusivamente un "fondamento razionale ed eterno della natura e della storia"?

Uno così, direi, crede di essere lui Dio, è perso in una fantasia infantile di megalomania e andrebbe aiutato da qualcuno (di bravo, però!). E invece, a quanto pare, uno così è il modello di umanità che ha Vito Mancuso e tutti quelli che denunciano l'impossibilità di un'etica senza Dio. Al punto che anche un ateo, nella misura in cui si comporta bene, sta "manifestando con la sua assolutezza etica un livello dell' essere che non è conforme con la sua negazione di un' assolutezza a livello ontologico." E al punto che anche un credente, nella misura in cui si comporta bene, non sta rispettando gli uomini, sta sottomettendosi a Dio, .

Cioè non c'è scampo: se non ti metti le dita nel naso è solo perché credi in Dio!

mercoledì 5 agosto 2009

L'italianizzazione

Io, modestamente, leggo l'Economist. Quindi ogni tanto mi sorbisco il mio articoletto sul vecchio satiro che, nonostante ne faccia e ne abbia fatte di cotte e di crude, gli italiani lo amano ancora tanto e forse lo ameranno per sempre.Ma oggi leggevo un articolo sulla Spagna, per una volta: infatti non si parlava di giudici corrotti, minorenni corrotte, istituzioni corrotte e giornalisti corrotti, ma di economia e politica. Un sollievo.
Il problema essendo che Mr. Zapatero ha fatto alcune mosse tattiche giuste sul piano politico, ma rovinose sul piano economico (si tenga in mente che chi parla è l'Economist, quindi una delle mosse è non aver reso meno oneroso per le aziende il licenziamento dei dipendenti). E va beh. Si procede con la descrizione del "disastrous labor market" spagnolo, caratterizzato come "costoso e con un basso livello di istruzione":
"La contrattazione collettiva implica che i salari dei lavoratori assunti a tempo indeterminato (l'aristocrazia operaia del paese) stanno aumentando anche mentre i prezzi al consumo stanno scendendo.
Dato che la Spagna, membro dell'Euro, non può più effettuare svalutazioni, le sue aziende stanno diventando ancora meno competitive.
Una situazione fiscale inizialmente robusta si sta rapidamente erodendo [...].
Se la crescita resta un miraggio, gli investitori presto chiederanno una remunerazione maggiore per i titoli del tesoro." (traduzione veloce mia)
E così via, mentre io mi dicevo qualcosa del tipo: ma vedi che credevo che in Spagna almeno dal punto di vista della gestione politica stavano meglio di noi, qui sembra che parli dell'Italia... Ed ecco la conclusione dell'articolo:
"Mr. Zapatero sembra contare sulla forza di inerzia per far uscire il paese dalla crisi, il che gli permetterebbe di vincere le elezioni per la terza volta nel 2012. Sarà fortunato se se la caverà così a buon mercato. E anche se ce la facesse, quella che avrà attuato è una ricetta per l'italianizzazione della Spagna." (traduzione veloce mia)

Ah, ecco, mi sembrava.

mercoledì 22 luglio 2009

Pop!

E in effetti con la noia di Harry Potter me la sono cavata troppo alla svelta, ma la misura del post è tiranna, richiede un argomento alla volta. Visti i feedback, credo il discorso si possa un po' allargare dal caso specifico (sul quale tutto sommato ha ragione Antiorario: trattasi di Häagen-Dazs) al fatto generale, che mi sembra la questione del pop. O almeno io la chiamo così.

Mi scrive infatti una lettrice: "Forse, semplicemente, ciò che mi fa preferire le verdure dell'orto dell'amica Bernardetta a quelle del supermercato è questo: genuinità, freschezza, nessun passamano, raccolta al momento della giusta maturazione, acqua di pozzo, nessun pesticida, niente gas di scarico addosso e così via. [...] Bisogna farsi una ragione, credo, di aver messo insieme una finezza di palato che fa apprezzare le verdure dell'orto: insomma, voglio dire che è un cavarsela a buon mercato parlare semplicemente di noia, mentre si è in grado di coglierne perfettamente le ragioni ma si preferisce sorvolarle per non correre il rischio di sentirsi superiori."

Ora, difficilmente si troverebbe qualcuno che ha meno pudore di me a dichiarare la superiorità dei suoi personali gusti su quelli del volgo, ma la questione per quanto mi riguarda ha una dimensione in più: il fatto è che naturalmente noi adoriamo le verdure bio/local/homegrown/organic, ma cosa mangiamo davvero? Certo le insalate miste, certo la tartare di tonno col wasabi, certo la salsiccia ricavata dal maiale del cugino, ma anche molte altre cose, alcune ben poco raccomandabili, e alcune buonissime nonostante siano "sbagliatissime"(o forse proprio perché lo sono). Tipo le patatine di McDonald's. Tipo la pizza al taglio untissima. Tipo la torta del supermercato (che sì, magari non è proprio buonissima, ma quel sapore un po' artificiale è particolare, ce l'ha solo lei, alla fine dopo un po' mi manca...). O, per l'appunto, tipo il gelato Häagen-Dazs.

Forse sono le nostre nuove, debosciate generazioni, ma il gusto del godimento procurato in modo semplice, poco problematico, magari con qualche prodotto di sintesi chimica, progettato in laboratorio e corredato di un packaging attraente e multicolore è un gusto che non possiamo negare di possedere. Al limite. è un gusto di cui andiamo fieri, in particolari situazioni e occasioni. Non parlo del finto intellettualismo del trash, del camp, delle commedie di Pierino: quelle non ci piacciono davvero di per sè, ci piace l'uso che ne possiamo fare all'interno delle nostre pratiche interpretative. Parlo del gusto per il pop.

Bach è meraviglioso, irraggiungibile, perfetto.
E Natalie Imbruglia? Non scherziamo. E però
vogliamo fare finta che in macchina e a casa abbiamo solo l'integrale del clavicembalo ben temperato? Che le uniche cose significative che la musica ha da dire all'essere umano si trovano negli spartiti della musica classica? Che non ci siamo mai innamorati di una canzone (mai? un milione di volte!)?

La finezza del palato resta: non tutto ci piace e siamo in grado di riconoscere la cosa "vera" e "genuinamente" migliore, di distinguere Thelonious Monk da Giovanni Allevi. Io personalmente sono di sicuro pronto a sostenere che il primo è meglio del secondo e che questo mio gusto è "superiore". Ma questo perché alle mie orecchie Giovanni Allevi è di nuovo un McFlurry: qualcosa di francamente indifendibile, se non come umana debolezza. E le canzonette di Paolo Conte? E quelle di De André e De Gregori? E quelle di Tiziano Ferro? Eccetera eccetera?

martedì 21 luglio 2009

Harry Potter e la maledizione del McFlurry

C'è un sacco di gente al mondo che considera il McFlurry un gelato. Si tratta della preparazione di McDonald's definita "a vanilla ice cream dessert". Non so se lo avete mai assaggiato: se sì, sapete già che abisso lo separi dal gelato (quello vero, buono e artigianale); se no, dovete fidarvi della mia parola. Il McFlurry, voglio dire, non è questione di buono o cattivo, semplicemente non è gelato: è una emulsione di latte e zucchero (e non voglio sapere cos'altro), dolce e vanigliosa.

C'è un sacco di gente al mondo che considera la saga di Harry Potter un bel ciclo di letteratura fantastica (c'è un sacco di gente che lo considera molto ma molto di più, ma è inutile scomodare i fan). Ecco, per me Harry Potter sta alla letteratura (anche di intrattenimento, anche fantastica, anche per bambini, cioè alla letteratura nel senso più ampio e meno snob possibile), come il McFlurry sta al gelato. Non è questione di buona o cattiva letteratura, è che semplicemente Harry Potter non è una saga fantastica: è una emulsione di storie, stereotipi e mitologie pop, dolcificata, edulcorata, raffazzonata e (a partire da quando è diventato un successo planetario) scritta con un manuale di marketing come guida.

Questo non significa che i lettori di Harry Potter sono tutti scemi, così come i consumatori di McFlurry non sono tutti degli imbecilli. Non vuol dire che Harry Potter è poco raccomandabile solo perché non rientra nei criteri bigotti di parrucconi intellettualoidi e snob, così come il McFlurry non è poco raccomandabile solo perché non gli assegnano la stella Michelin. Non significa che chi legge Harry Potter è una specie di cerebroleso che non capisce l'alta letteratura, così come chi mangia un McFlurry ogni tanto non è un uomo di Neanderthal incapace di sperimentare le delizie della gastronomia langarola. Non significa che Harry Potter non possa essere avvincente, sorprendente, capace di creare immedesimazione e divertimento, così come il McFlurry non è del tutto privo di dolcezza, cremosità, capacità di farti sentire glicemicamente esilarato.

Quello che voglio dire è che nessuno mi convincerà mai che il McFlurry è un buon gelato. Non perché ce l'ho con McDonald's per ragioni ideologiche, o perché mi vergognerei di ammettere gusti tanto plebei: solamente perché il mio palato non è capace di ignorare le enormi differenze di gusto e felicità che dividono l'esperienza-McFlurry dall'esperienza-gelato. Allo stesso modo, se dopo aver letto, anche con un certo divertimento e di sicuro con grande facilità e scorrevolezza, sei libri di Harry Potter su sette, tuttavia non riesco a trovare da nessuna parte la forza di leggere anche il settimo e ultimo, non è per intellettualismo, ma per noia. Pura e semplice.


venerdì 17 luglio 2009

In ritiro

Sto leggendo una stampata, molti fogli. Ogni volta che finisco una pagina, la appoggio a faccia in giù, a sinistra della pila di fogli ancora da leggere. Man mano si forma la pila dei fogli già letti, e sta arrivando a toccare l'angolo di un libro, che sporge da sopra una piccola torre di altri libri. Foglio dopo foglio, lo spazio verticale è sempre meno e sono ormai cinque o sei pagine che penso non ce ne staranno più, che non riuscirò a infilare anche questa sopra alle altre e sotto l'angolo del libro.

Sto leggendo il racconto di un ritiro di meditazione Vipassana. Il protagonista cerca di venire a capo dei mille contrasti (fisici, psicologici, intellettuali) che l'esperienza gli provoca. Uno dei punti, naturalmente, è il distacco dal sé, dalle decisioni-lamentele-intenzioni-illusioni di controllo. E naturalmente uno dei punti è: se lasci perdere e non ti preoccupi, poi le cose chi le fa? Cosa ti impedisce di morire di fame insieme ai tuoi figli in un fosso di scolo di un slum di Calcutta?

Finisco il foglio, lo appoggio sugli altri a faccia in giù. Una parte di me si chiede come ho fatto a continuare a far salire la pila per tutto questo tempo sotto all'angolo del libro. Avrei detto di aver raggiunto il massimo possibile almeno dieci pagine fa. Ero arrivato (ma sono passati almeno cinque minuti) alla fine dello spazio. Evidentemente mi sbagliavo, non era il massimo.

Ma la pila non è più sotto l'angolo del libro; è stata spostata di qualche centimetro a destra; e anche la pila dei fogli ancora da leggere è stata spostata di qualche centimetro a destra; e questo nonostante avrei giurato che non ci fosse spazio per fare questi spostamenti sulla mia incasinatissima scrivania (il che, oltre alla mia pigrizia, spiegava perché continuavo a guardare salire la pila sotto al libro senza risolvere il problema). Chissà da quanto tempo, senza accorgermene, impilo i fogli già letti senza doverli più far stare sotto all'angolo di quel libro.

Posso tornare tranquillamente a finire il racconto sul ritiro di meditazione Vipassana.

lunedì 13 luglio 2009

E naturalmente anche Grillo è un povero stronzo

Non che non sia ridicolo, per carità. Non che non abbia sparato a zero sul PD da sempre e continui a farlo, per carità. Non che l'idea che possa guidare la maggiore forza politica di opposizione non ci faccia vacillare, per carità. E nemmeno che i partiti di massa siano taxi, da prendere o lasciare quando fa comodo, oppure che non ci siano gravi problemi di regolamento, oppure che la cosa non sia terribilmente "poco seria", per carità.

E sono tutti lì a fissare il dito (Grillo), mentre la luna (il fatto che l'elettore medio del PD li considera altrettanto ridicoli di Grillo, tutti quanti, e molto più compromessi con le schifezze del potere) galleggia beata ed enorme nel cielo estivo.

Se era una povera stronza la Serracchiani, figuriamoci Grillo: e il punto non è che non lo siano, al limite il punto è che magari lo sono proprio. E, pur essendolo, appaiono a tanta gente, anche nel PD, comunque paragonabili, se non addirittura preferibili, ai Bersani-Franceschini-Marino-Bindi-Rutelli-D'Alema ecc ecc.

Anche Sofri dice che purtroppo ormai nessuno considera importante "la serietà" dei candidati:
dal momento che non c'è più, e da tempo, quella intima serietà responsabile che sola, altro che gli Statuti, trattiene dal trattare il partito cui tanti affidano le proprie speranze come il bar della stazione di notte.
Ma se, invece di essere in atto un mutamento antropologico del popolo della sinistra, che sta diventando incapace di apprezzare la serietà e la preparazione politica, il punto non sia che, molto semplicemente, la serietà e la credibilità l'ha perduta tutta la classe dirigente del PD, che il suo popolo non gliela accorda più, e che quindi Grillo tutto sommato finisce per sembrare il più serio di tutti?

Se non altro per il rasoio di Occam: non c'è bisogno che qualche milioni di italiani siano diventati delle specie di berlusconizzati di sinistra, capaci solo di ridere alle barzellette e apprezzare le ragazze giovani, basta che qualche decina di notabili di partito abbiano talmente perso la faccia da risultare più ridicoli di un comico. E talmente non se ne rendono conto, che l'unica cosa che sanno dire di uno da cui temono di farsi scippare il partito (e come hanno fatto ad arrivare a questo punto non se lo chiedono mica): ma non è mica uno serio!

martedì 7 luglio 2009

You can't judge the book from the incipit (or can you?)

Tutti gli incipit felici si assomigliano fra loro, ogni incipit infelice è infelice a suo modo.
Cioè: un grande libro spesso ha un grande incipit - ed elencare i grandi incipit dei grandi libri mi sembra un esercizio un po' stantio (naturalmente, ho una personale top five, ma è mooolto stantia); invece, alcuni grandi libri hanno incipit scipiti, insulsi, insignificanti, infelici.
Quale sarà l'opera con la divaricazione più grande tra bellezza dell'incipit e bellezza globale? Chi resterebbe nello scaffale eternamente se si dovesse decidere la lettura solo in base alla prima pagine, alle prime righe, alla prima frase?
Non ci ho pensato granché, ma la prima proposta che mi viene è Guerra e Pace:

«Eh bien, mon prince, Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, proprietà de la famille Buonaparte. Non, je vous préviens, que si vous ne me dites pas que nous avons la guerre, si vous vous permettez encore de pallier toutes les infamies, toutes les atrocités de cet Antichrist (ma parole, j'y crois), je ne vous connais plus, vous n'êtes plus mon ami, vous n'êtes plus il mio fedelissimo servitore, comme vous dites. Ma benvenuto, benvenuto. Je vois que je vous fais peur, sedetevi e raccontate.»
Così diceva nel luglio del 1805 la ben nota Anna Pavlovna Šerer, damigella d'onore e amica personale dell'imperatrice Mar'ja Feodorovna, accogliendo il grave e altolocato principe Vasilij, che era arrivato per primo al suo ricevimento. Da molti giorni Anna Pavlovna tossiva; aveva la grippe, come diceva lei, (grippe era allora una parola nuova, usata soltanto da pochi).

Non so, a me non sembra proprio felicissimo - e se consideriamo il resto del libro (o altri incipit di Tolstoj), beh, insomma, dai.

Comunque, pensiamoci.

lunedì 6 luglio 2009

Invito permanente a tutto il mondo

«The beliefs which we have most warrant for, have no safeguard to rest on, but a standing invitation to the whole world to prove them unfounded.»

«Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo di dimostrarle infondate.»


John Stuart Mill, On liberty, 1859


venerdì 3 luglio 2009

Se sei un giudice costituzionale

Se sei un giudice costituzionale
non soltanto per te non vale
la legge che al normale magistrato
impedisce, destino ingrato,
di fare dell'imputato
un lieto commensale,

ma hai anche totale la licenza
dal buon gusto, dall'intelligenza,
dall'essere di esempio per chiunque:
non stupisce, dunque,
che tu inviti a cena Sua Emittenza,
Angelino Alfano e Gianni Letta.

E nessuno mai che si permetta
di dire che parlavate di decreti,
sentenze, leggi e impunità,
invece che di donne o di reti di Kakà,
e chi lo dice è peggio che anormale,
mentre tu sei un giudice costituzionale.

io non ho il permesso

Io non ho il permesso di soggiorno. E non ne ho bisogno!
Sono nato legale, pulito, incensurato - e bianco (ma bianco di quelli giusti).
Io non ho bisogno di permessi, perché sono uscito da una vagina legale e non da una criminale (in realtà, da un taglio in una pancia legale, e non da una criminale).

Io vado bene, sono normale, sono italiano, io, non un delinquente (cioè, anche se fossi francese o inglese non sarei un delinquente, ma non stiamo a sottilizzare - poi magari un giorno, chissà, anche francesi e inglesi... voi vi fidate di francesi e inglesi?).

E naturalmente mi vergogno profondamente e mi fa tutto schifo e vorrei fare qualcosa. Mi è venuta in mente una piccola idea. Prima la lancio così, poi mi informo e magari, chissà... Intanto l'idea è questa: qualcuno sa se si può richiedere il permesso di soggiorno anche da cittadini italiani?

Cioè: è chiaro che non si può OTTENERE il permesso di soggiorno, ma presentare domanda non dovrebbe essere tecnicamente possibile? Non potremmo presentare qualche MILIONE di domande e chiarire che ci fa schifo essere legali e giusti e normali per diritto di nascita e non per come ci comportiamo?

p.s. lettura consigliata, il solito perfetto Sofri (colgo l'occasione per inaugurare una tradizione di questo blog: tutte le volte che cito Sofri, ricorderò la mia personale opinione che lui sa chi ha ammazzato Calabresi e non lo dice)



giovedì 2 luglio 2009

La politica alla macchinetta del caffè --- ovvero: ma Debora Serracchiani è una povera stronza?

Con una breve, spigliata intervista a Repubblica Debora Serracchiani, una che parla da deputata europea, non da candidata segretaria, non da candidata premier, solo da outsider molto popolare, ha fatto un gran casino. Tutti scandalizzati, tutti orripilati, tutti a trattarla da povera stronza, ragazzina che non sa quello che dice, qualunquista, superficiale, stupidina (per esempio, Cappellini sul Riformista).

Secondo me la questione non riguarda la Serracchiani in quanto tale, ma il modo di fare politica oggi per la sinistra (e il PD): si può fare politica parlando di simpatia di un candidato, criticando un linguaggio troppo difficile, indicando spudoratamente il nemico, affibbiando la qualifica di «vecchio» agli altri e di «nuovo» a se stessi?

Una prima risposta tendenziosa: certo che si può, Berlusconi lo fa da quindici anni. Ora, i toni, e soprattutto gli interessi privati che la retorica politica berlusconiana ricopre non sono paragonabili a quelli della Serracchiani (e infatti fino a cinque minuti fa lei era una specie di Santa Giovanna D’Arco, era quella-che-aveva-battuto-Darth-Vader-Silvio-Berlusconi). Ma la semplificazione della visione politica che sottende a risposte come «ho scelto di stare dalla parte di Franceschini perché è il più simpatico» non è tanto lontana da quella che è sempre stata indicata, con un misto molto rivelatore di ammirazione per la sfrontatezza e di disgusto elitario, come la grande forza comunicativa di Berlusconi: parlare alla gente in termini super-comprensibili, rifacendosi a categorie extra-politiche, puntando su un’emotività quasi infantile.

E infatti la reazione dei vari Pollastrini, Zingaretti, Errani, Bindi ecc ecc è una specie di rivolta dei benpensanti (ancora prima che dei benpoliticanti) a qualcuno che si permette di trascinare a un livello ridicolo la discussione politica – e di nuovo, tralasciamo di analizzare la questione di quali interessi e manovre reali siano all’opera al di sotto delle dichiarazioni pubbliche. «Anche Totò e Tina Pica erano simpatici, sarebbero stati un ticket straordinario», «sapete perché preferisco Bersani? Perché sa cantare...», «I suoi argomenti mi sono sembrati un po' banali, scontati e certamente non quelli di cui c'è bisogno in questo momento».

Nell’intervista di Maltese (e anche qui ci sarebbe da analizzare l’impatto del genere giornalistico specifico sul tono e il taglio del discorso), Serracchiani si è permessa di fare una cosa che nessuno ha mai visto né sentito fare a nessun politico di sinistra: parlare di politica come si fa normalmente tra colleghi alla macchinetta del caffè, tra amici in pizzeria, tra genitori al parco mentre i bambini giocano. In un certo senso, Veltroni aveva inaugurato questa modalità comunicativa intima, sdrammatizzante, leggera: solo che lui parlava così di figurine Panini, musicisti jazz e film d’autore, mica delle candidature interne, delle divergenze politiche, delle prospettive elettorali.

Mi sembra che il punto allora sia: si può a sinistra fare politica alla macchinetta del caffè, parlando come parlano gli elettori e non i quadri del partito, oppure no?

Non si tratta di una domanda semplice, e la risposta non è affatto banale. Molta parte del popolo della sinistra, e forse anche del popolo del PD, pensa che la politica sia una cosa seria, che i leader dovrebbero essere molto competenti, molto intelligenti, molto migliori della francamente sconsolante mediocrità (anche morale) che sembra invece imperante nella parte avversa. Molta parte di noi preferisce di gran lunga, nella propria vita e forse anche nell’urna, chi usa le posate nel modo giusto, chi ascolta, legge, guarda cose intelligenti, chi si esprime con proprietà e attenzione, chi non banalizza ma vola alto, chi non riduce a una brutale semplicità l'irriducibile complessità delle sfumature.

Ma siamo sicuri che poi, alla macchinetta del caffè, non abbiamo mai detto: «Come si fa a menarla ancora con “piattaforma programmatica”?!», «Questo Franceschini è proprio simpatico» (oppure, «per niente simpatico»), «Basta, finché c’è lì D’Alema non se ne uscirà mai fuori» eccetera eccetera eccetera? Siamo sicuri che sia un modo di parlare di politica da poveri stronzi, che giustamente non devono essere presi in considerazione da chi, ben più preparato e bravo, ha in mano i destini della nazione? Siamo sicuri che anche a sinistra la cosa migliore è non disturbare il manovratore?